Un’opera d’arte, in tal senso, può essere definita “bella” dal momento che concorre ad aumentare la conoscenza universale. In questa prospettiva, gli artisti possono essere equiparati agli scienziati, dal momento che, mediante una specifica metodologia e con un linguaggio diverso da quello scientifico, sono stati in grado di scoprire qualcosa di nuovo, riescono a “vedere” qualcosa che gli altri non vedono, e cercano – attraverso la loro arte – di comunicarcelo.
Per Semir Zeki, professore di neurobiologia alla University College di Londra, l’Arte, ed in particolar modo la pittura, rappresenta uno straordinario strumento per studiare i processi nervosi tramite cui il cervello percepisce la realtà.
In passato si riteneva che la visione costituisse un sistema passivo, vale a dire che l’occhio fosse un canale mediante il quale passavano i segnali dall’esterno che arrivavano poi al cervello così com’erano: il cervello, invece, è in grado di effettuare una scelta tra i tantissimi dati a disposizione e mediante un confronto tra l’informazione selezionata e i ricordi immagazzinati riesce a generare l’immagine visiva seguendo un procedimento molto simile a quello attuato da un artista quando dipinge un quadro.
Attraverso l’immaginazione è possibile estrapolare le linee essenziali della realtà. Mentre perviene ad una “nuova” conoscenza, il cervello umano è di continuo ostacolato da dettagli irrilevanti e distraenti: pertanto, deve estrarre le informazioni essenziali e costanti, partendo da un insieme di dati in continuo cambiamento.
Ad esempio, il Caravaggio nelle sue opere non si limitava a rappresentare la realtà: cercava, infatti, di renderla “più vera del vero”, imprimendo alla rappresentazione delle cose una forma eterna. Nello stesso modo, può essere citato anche Raffaello Sanzio, che, nel momento in cui dipingeva una donna bella, non ritraeva una modella in particolare, bensì ne osservava con attenzione molte, per conservarle nella memoria visiva e combinare i tratti più belli di ognuna nell’opera compiuta.
Tale processo prende il nome di sinestesia, ossia la capacità di “percepire insieme”: si tratta, in sostanza, di un procedimento retorico che consiste in associazioni inedite, all’interno di un’unica immagine, fra sostantivi e aggettivi appartenenti a sfere sensoriali diverse: “dolci parole” (gusto – udito), “fragori del sole” (udito – vista), “colore freddo” (vista – tatto), “profumo dolce” (olfatto – gusto).
La sinestesia è anche un fenomeno percettivo reale che si manifesta come una percezione sovrapposta ed incontrollata dei sensi. Tale disciplina è stata oggetto di studio della psicologia della percezione e si manifesta, per lo più, in individui dotati di elevate capacità intellettuali.
Tale esplorazione è possibile grazie alle tecnologie mediche recenti, come la Risonanza Magnetica Funzionale e la PET. In particolare, grazie a quest’ultima è possibile attribuire alla corteccia orbito-frontale mediale un ruolo chiave nella percezione estetica del bello.
Zeki, nel suo lavoro, raccoglie le immagini visive estetiche, osservando che il cervello visivo si compone di una corteccia visiva primaria, collocata nella parte occipitale del cervello ed avente la funzione di ricevere i segnali provenienti dalla retina. La sua lesione comporta la cecità.
Proprio attorno a tale area sussistono ulteriori aree visive volte a percepire e ad elaborare diversi stimoli sensoriali, ad esempio il colore, la forma, il movimento, e così via. Sono le cosiddette aree occipito-parietali, ossia diverse aree volte ad analizzare ciò che l’occhio vede e vengono stimolate proprio dall’arte e dalla bellezza.
La teoria postulata da Zeki sembra, in qualche modo, ricalcare quella di Kant, che affermava l’esistenza di un doppio sistema di conoscenza, ossia una percezione passiva sensoriale e la sua elaborazione attiva, mediata dal cervello visivo. Per cui si passa dalla neuroestetica alla neurobiologia della bellezza.
Per Zeki l’essere umano vede attraverso il cervello e non con la retina, la quale assume una funzione da filtro, da canale verso il cervello, per poi costruire l’immagine in base ai suoi vissuti, alla sua cultura e a ciò che l’immagine stessa è in grado di evocare. Di conseguenza: “il cervello visivo non è come un lettore di DVD, bensì un network in grado di costruire l’immagine a seguito di una elaborazione di dati archiviati, correlati alle emozioni percepite e al godimento della bellezza. Vedere non è un processo passivo, ma attivo e creativo”.
Bibliografia
Cappelletto, Neuroestetica. L’arte del cervello, Roma-Bari, Laterza, 2014.
D’Angelo, Estetica, Roma-Bari, Laterza, 2012.
Pignotti, I sensi delle arti: sinestesie e interazioni estetiche, Bari, Dedalo, 1993.
Zeki S., La visione dall’Interno. Arte e Cervello, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
E. Pinchera (a cura di), Dalla neuroestetica alla neurobiologia della bellezza, Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Roma, 2015.
Nota Bene: La Psicologa Erika Salonia propone argomenti di pertinenza psicologica, con l’obiettivo di sensibilizzare i lettori alla cultura della salute mentale, per promuovere il cambiamento e il benessere psicofisico, migliorare la qualità della vita, stimolare le risorse delle persone e dei contesti e, soprattutto, per impedire che il disagio divenga malattia.
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